Se volessi scegliere un simbolo augurale per l’affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza

– Italo Calvino, Lezioni americane
consiglio d’ascolto

09:30. Vedo qualcosa sfrecciare dalla finestra, un’ombra tra le tende. Sorrido pensando a una frase della mia prof di biologia del liceo: «È più probabile morire per un vaso di fiori che ti cade in testa che per shock anafilattico». Un pensiero fugace per poi tornare a lavorare. Non so a che ora ho cominciato, ma ho già il fiatone.

10:15. Batto forsennatamente sulle lettere della tastiera perché il tempo dilatato nasconde un furto di ore. Debbo terminare questa mail, riempire il questionario della Regione, chiamare il consulente del lavoro: dalla mia precisione dipendono diversi progetti di vita. Una vertigine furiosa che mi inchioda al fiato corto, che mi costringe a controllare e ricontrollare l’ora. Non riuscirò a fare tutto, qualcosa lo si dovrà sacrificare, libando alla frenesia paradossale di un tempo immobile.

12:33. Questo ansimare mi ricorda che non tocco F. da più di un mese. Lo vedo e lo sento, in uno scambio di significati attraverso il filtro di tutte le tecnologie possibili. Sono dieci anni che non passiamo un mese intero senza frugare nelle pelli che conosciamo a menadito, alla ricerca di nuovi centimetri da conquistare. Ho bisogno di un caffè. Non so quando pranzerò ma ora ho voglia di un caffè: la mia parentesi nella parentesi.

15:30. Me ne faccio un altro. Forse è il quarto. Ho finito le capsule due giorni dopo il lockdown e ho riscoperto la calma profonda della moka. Mi metto il tailleur più bello e un tacco discreto per conferire eleganza alla cerimonia. Un segreto alchemico mi fa sentire custode di quelle polveri, gli alambicchi richiedono la mia totale attenzione, esigono un rigore maniacale, come fosse l’elisir di lunga vita che annienta la velocità. Metto prima lo zucchero, dopo la clausura metto sempre prima lo zucchero. Le dita esauste di una mano attorno alla tazzina calda, con le altre scosto la tenda per guardare fuori. Penso ad A. e al suo coming out: lo avrà fatto? Come avranno reagito i suoi? E se ora fosse incatenato a un’autenticità insopportabile? Finite le pratiche per richiedere la cassa integrazione lo chiamo. Abbasso lo sguardo sulle scarpe e mi chiedo chi, di noi, avrà ancora la forza di tirare i tacchi in faccia agli oppressori, quando questa storia sarà finita: quanto orgoglio ci rimarrà? Dopo chiamo tutte.

15:35. Fuori c’è il sole, quasi per scherzo. Indovino un’arietta fresca dal muoversi dei rami. Ho fame, alla fine non ho pranzato perché dovevo portarmi avanti con il piano di fundraising per far sopravvivere il Cassero alla crisi. Fuori le strade non portano ma stanno, uteri di catrame in attesa che la gravità faccia il suo dovere. Ci sono dei cocci, infatti, o qualcuno in frantumi, non vedo benissimo. Qualcosa si è rotto.

15:40. Torno al lavoro. Ritorna l’affanno. Dalla finestra, oltre la tenda, vedo altre ombre sfrecciare.

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