Pensando a questo periodo e al nostro ruolo in questo momento, mi è subito tornata in mente la poesia Alle fronde dei salici di Salvatore Quasimodo. Parla del ruolo del poeta durante la guerra e descrive la sua impotenza: in un momento del genere anche i poeti non riuscivano più a cantare il bello, sarebbe stato inutile. Per cui, appese le cetre alle fronde dei salici, lasciavano che fosse il vento a suonarle. Non credo infatti che il nostro poeta volesse dire che la resa era l’unica via rimasta, o che non vi fosse più nulla da cantare. Ritengo invece che questo atto di appendere le cetre alle fronde dei salici indichi l’impotenza dell’uomo rispetto alla grandezza degli eventi, ma non la sua resa o il suo silenzio di fronte a ciò che stava accadendo. Credo che i poeti, durante la guerra, non riuscissero a trovare parole più forti delle armi usate in battaglia, e quindi appendessero le loro cetre per far sì che almeno il vento, facendole oscillare, continuasse a farle suonare.

La poesia può trovare ostacoli per riuscire a esprimersi, ma non per questo smetterà mai di esistere. Non esiste nulla di più straordinario di un evento che è in grado di sconvolgere non solo la vita di un singolo, ma quella dell’intera comunità globale. Un artista ha il compito di strappare momenti di extra-ordinarietà alla consuetudine, ma oggi egli vive il paradosso di essere soggetto a una spietata quotidianità e allo stesso tempo alla straordinarietà della pandemia. Dunque, tornando alle parole di Quasimodo, cosa può creare il poeta di più extra-ordinario della guerra? E in questo caso, della pandemia? Di più straordinario della sospensione della realtà?

Per Quasimodo la guerra era essa stessa la poesia: il poeta non era diverso in nulla da un contadino, non aveva qualità più efficaci nel combattere; egli aveva però la capacità e insieme il compito di immaginare un futuro diverso. L’artista quindi, incapace di incidere sulla realtà con la sua opera, non può fare a meno di entrare in contatto con la nuova realtà che si è creata oggi, interrogandosi sul tipo di relazione che con essa vuole instaurare, sui modi in cui può rifarsi strada in una scena che al momento sembra essergli stata rubata da questo virus. Ma siamo proprio sicuri che l’arte e questo virus siano così incompatibili?

Il virus, per quanto ne sappiamo, è immortale: non si hanno prove scientifiche della sua nascita né si può prevedere la sua scomparsa. Esso non possiede un proprio sistema metabolico, ma si serve di quello degli altri esseri viventi per esistere; e in questo momento ha trovato terreno fertile per la sua espressione. Il virus nella trasmissione da un soggetto a un altro si appropria di alcuni geni dell’ospite e li trasporta all’ospite successivo.

L’arte è molto simile: non si conoscono con esattezza le sue origini, essa troverà sempre nuove forme per esprimersi ed emergere. L’arte trasforma chi la ospita. Come diceva Pasolini, «la poesia è inconsumabile», così come quel virus che oggi ci costringe a sospendere le nostre vite e a interrogarci sulla motivazione che ancora spinge chi l’arte l’ha sempre creata a continuare a farlo, soprattutto ora che c’è un artista più grande, un artista che gioca con la struttura della nostra società.

Da questi pensieri è nata un’intervista a più voci, che cerca di dare eco a chi oggi si vede privato del suo mondo lavorativo e immaginativo. Questa intervista nasce dalla necessità di appendere queste cetre alle fronde dei salici e lasciare che sia il vento a suonarle. Perché la vera domanda è: come può un artista essere ancora motivato a creare un’opera d’arte che sia in grado di avere un impatto sulla realtà maggiore di quello che sta avendo e avrà questo virus?

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