Quella Distanza vi fu tra Noi
Che non è di Miglia o Mari –
La Volontà è che la determina –
L’Equatore – non può mai –

– Emily Dickinson

Ci svegliavamo ogni giorno a mezzogiorno, perché le mattine erano vasi da portare a Samo che non sapevamo come riempire. Strisciavamo come larve fuori dai nostri corpi, lasciati a riposare sotto lenzuola che registravano il cambio delle stagioni. Ci perdevamo in un labirinto di attività iniziate e mai portare a termine. Mangiavamo senza appetito a ogni ora fino alla nausea. Tutto era lì, condensato nello spazio che intercorreva tra la tavola mai sparecchiata e il paradiso della rete globale.

C’era un muro invisibile di confusi decreti ministeriali che ci separava dal mondo. Una distanza infinita e impercorribile separava le nostre due poltrone dalle marce funebri dei carri militari e dai volti pixelati di amici e parenti. Ma eravamo felici, sollevati dalla totale assenza di responsabilità, dall’impossibilità di progettarci un futuro certo, dalla consapevolezza che finalmente ci eravamo fermati. L’incertezza che ci aveva sempre accompagnato era esplosa a livello universale, investendo ogni aspetto della vita umana, ogni metro quadro del pianeta. Per la prima volta potevamo non fare nulla. E poco importava se gli altri cadevano come foglie. La morte altrui era diventata un’occasione per essere liberi.

Ci arrivavano notizie da ogni fronte. Dal fronte occidentale: cronaca in leggera differita di temperature corporee e livelli di ossigenazione nel sangue. Dal fronte orientale: Kaletra e Plaquenil ogni dodici ore per dieci giorni. Dal fronte settentrionale: silenzio interrotto da brevi e inutili scambi di battute. Non trovavamo le parole per rispondere e avevamo smesso di cercarle.

Io sono
un privilegiato. La mia nausea
è un privilegio
difeso da muri
filo spinato e prigione.

– Heiner Müller

Leggevamo che “non esistono più confini”, eppure ci sembrava una voragine la distanza che si era creata tra “noi” e “loro”. Loro, i cinesi, poi i lombardi, poi i conoscenti alla lontana, poi gli amici, poi i parenti. Leggevamo che dovevamo approfittarne per “riscoprire noi stessi”: ci eravamo riscoperti nauseati e privilegiati, intenti a vomitare parole d’odio al vicino di casa sorpreso per l’ennesima volta all’aria aperta. Leggevamo ovunque l’etimologia del verbo “compatire”, letteralmente “soffrire con”, ma la compassione che ci era sempre mancata non l’avremmo certo acquisita come un fulmine a ciel sereno. Avevamo scelto la strada più semplice: cercare il nemico avvelenando i resti di una civiltà allo sbando in una lotta quotidiana tra cittadini. Sulle strade silenziose continuava a risuonare la follia della folla coi forconi alla disperata ricerca del mostro da abbattere.

Poi venne il giorno in cui tutto avrebbe dovuto essere diverso. Ci eravamo promessi l’inizio di un nuovo ordine. D’altronde avevamo sacrificato così tanto: noi, risparmiati dalla malattia e dalla fame, guardavamo la strada dai balconi dei nostri appartamenti di 100 metri quadri al terzo piano con ascensore e arredamento vintage. Pensavamo che ci fosse dovuto. Pensiamo che ci è tutto dovuto. E così, passivamente, continuiamo a osservare il mondo dall’alto, aspettando di vederlo mutare davanti ai nostri occhi imperturbabili, senza fare nulla.

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