“This country dog
– Men I Trust, Tailwhip
won’t die in the city”
Ieri l’odore di mangime per gatti è arrivato in paese. Lo diceva sempre Anna, guarda che lo stabilimento produce così tanto che l’odore raggiunge persino casa mia. Di solito non succede mai, nessuno credeva che potesse succedere. Invece ieri quel tanfo si è permesso di viaggiare e arrivare fino alle case, oltrepassando il suo confine di periferia. Si è preso la libertà di essere libero e ammorbare l’aria, di interferire con essa. Non come gli alberi della piazza, vittime di una recente potatura clandestina. Erano mesi che i vicini chiedevano al comune di spuntare la loro chioma, troppo folta, troppo rigogliosa. La natura trapiantata nel cemento deve seguire le regole del cemento, regole antropiche. Eliminare qualsiasi tentativo di invasione: libertà vigilata. Nessuna novità, soprattutto di questi tempi.
Di solito in campagna vige la legge del filo d’erba: niente può essere realmente controllato, ogni cosa possiede regole interne che permettono una totale autonomia cellulare. Come un filo d’erba, appunto, che riesce a crescere ovunque, addirittura nell’interstizio fra due mattoni di un viottolo.
I campi ondeggiano al di là della rete che li divide dal cortile granuloso: spettinati, aggrovigliati, fitti di bulbi che aspettano di esplodere nella loro regalità floreale. Nessun tentativo di addomesticamento è permesso: anarchia pura. La natura incombe, quasi minacciosa, cercando di invadere il cemento pesante che la fronteggia con sguardo inerme, come il corpo stanco che osserva la scena dall’alto di un balcone.
Il sangue di campagna, verde e denso, è sempre stato e sempre sarà un po’ più anarchico rispetto agli altri, più bisognoso di ossigeno e vento fresco. Inspirare ed espirare, gonfiare la pancia per poi sgonfiarla: la gestualità del respiro è un rito che mai potrà essere vietato o eliminato. L’aria, grazie al cielo, esiste ancora, anche se stranamente pesante. Quella che esce dalle narici e dalla bocca si confonde con l’etere e si appoggia al parapetto del balcone, insieme a questo corpo ormai esausto. Potesse volare, questo corpo, levitare e scorrere via, insieme a un soffio di vento. Oppure cadere, semplicemente cadere BUM! come il vaso precipitato poco fa dal piano di sopra. È stato un attimo, quasi impercettibile, una sagoma sfocata dalla velocità di razzo. BAM. Rumore sordo – quasi sordido, in questo silenzio ormai sacro – e solo frantumi. Nessun altro suono ad accompagnare la metamorfosi del vaso in cocci. Chissà chi o cosa l’ha spinto; chissà chi o cosa l’ha spinto a farlo. Forse voleva semplicemente imporre il proprio schianto all’interno di questo folle bucolico cabaret. Basta con l’immobilità, se lo dice anche il corpo spossato fermo sul balcone. Il petto inizia a soffrire un po’, schiacciato contro il parapetto che ormai non para più, non protegge, ma soffoca soltanto. E se si staccasse? BUM. Inspirare ed espirare, lentamente. Riprendere il ritmo primaverile, serrato e appiccicoso, del respiro. L’aria, per fortuna esiste ancora l’aria.
Meravigliosamente leggiadro e viscerale