“Il teatro è un’isola galleggiante, un’isola di libertà.
– Eugenio Barba
Derisoria, perché è un granello di sabbia nel vortice della storia
E non cambia il mondo. Sacra, perché cambia noi“
Guardava il suo volto riflettersi su una superficie di acqua stagnante che lo ritraeva insieme al soffitto, colmo di crepe e ragnatele. Manichini ammucchiati negli angoli, alcuni di loro senza più braccia né gambe. Vecchie tuniche e corone di ogni forma e misura, adagiate sugli scaffali. Pagine e pagine di drammi, cosparsi alla rinfusa su un tavolo. Cerone e parrucche. Riflettori e sipari. Il laboratorio di sartoria era un galeone dagli effetti straordinari, progettato secoli e secoli prima per raggiungere isole rimaste ancora inesplorate. Il signor Teatro (soprannominato “Signor T”) viaggiava ormai da diversi mesi e non appena attraccò, si tolse il cappello di flanella. Aprì l’armadio, ritrovò il suo frac ormai scolorito e ridotto a brandelli di stoffa ricuciti nel tempo. Lo indossò quasi fosse una seconda pelle, disegnandoci sopra i bottoni che mancavano.
«Quanto tempo è passato?» si chiedeva, rivolgendosi ancora una volta alla pozza d’acqua stagnante. Non ricevendo risposta, cercò di arrampicarsi sui manichini per raggiungere le travi del soffitto. Riuscì a staccarne una, ma la sua testa vi rimase impigliata. Fu così che il signor T si trovò diviso a metà strada tra il suo galeone e una nuova isola. A metà strada tra vita e teatro, presente e passato, materia e parola.
«Quante isole si dovranno ancora esplorare prima di poter dire di essere, finalmente, arrivati?», pensava tra sé quella testa impigliata guardando in alto un cielo che sembrava cadergli addosso.
Il signor T non sapeva come liberarsi da quell’impiccio. Poteva soltanto sperare che qualcuno, accorgendosi della sua assenza, lo venisse a cercare. Ma chi se ne sarebbe mai reso conto in quell’isola nuova, mai esplorata, sconosciuta? «Non mi rimane altro che starmene qui, impigliato!», disse il signor T. «Potrei scrivere qualche testo nuovo, fare spettacoli sui tetti dei teatri: gli spettatori siederanno sulle nuvole e io avrò rivoluzionato qualcosa di molto antico». Così, tentando disperatamente di grattarsi il naso, il signor T scrisse, con la sua stessa voce viva, un nuovo manifesto:
«Non ci saranno più biglietti, abbonamenti, palcoscenici. Farò a pezzi le scenografie, i testi. Ripulirò l’intero galeone: non ci saranno più laboratori di sartoria. Distruggerò i riflettori. Una scena di microfoni e amplificatori prenderà il posto di tutte le sale dell’universo. Anzi, farò di meglio. Sarà il teatro a diventare un grande orecchio: un luogo in cui agli spettatori non serviranno più gli occhi per godere di nuove visioni. Basteranno i loro timpani per ascoltare parole nuove. Cosa ne faremo allora del teatro? – si chiedono in tanti. Di quest’assenza, intermittente? Perché a Teatro sei così: assente e presente, un po’ vivo e un po’ morto. Allora, cosa ti resta da fare? Loro risponderanno: ripetere, recitare, mandare a memoria. Riscrivere sulle riscritture. Pensano di ritornare al passato per rifondare il presente. Perché essere così serventi al reale, e cercare nel presente il passato, e nel passato il futuro? Io sono stufo! Stufo del tempo, dell’assenza e della presenza. Sono in nuova isola e il mio Teatro è proprio questo: una testa impigliata sul tetto di un palazzo e un palazzo impigliato sulla testa del Teatro»
«Cosa aspetti?», gli chiese il cielo. «Ti sto cadendo addosso! Spostati!»
«Ma se mi sposto, che fine farà il mio Teatro, e quest’isola?»
«Chi ha mai detto che ci sarà una fine?»
Testo precedente Testo successivo