È il 20 marzo 2020,

immagino

come tra qualche anno potrebbero considerare questa data e questo mucchio di parole;

ricordo

come tempo fa (non molto, nasco nel 1999 – sul morire di un millennio – e cresco e muoio sul nascere del seguente) consideravo questo ammasso di mobili in queste quattro mura. Mi sono sempre state strette, sarà che ho sempre condiviso tutto: pane, scarpe, aria e pure lei, la mia stanza. Da bambini sentiamo la necessità del possesso, ci attacchiamo alle cose sperando che nessuno ce le porti via. Crescendo perseveriamo, ma nel timore che a portarcele via (le cose) sia il tempo; ecco allora la paura, l’invidia, la rabbia a logorarci, finché lui (il tempo) ci raggiunge e ci toglie tutto lo spazio conquistato, riducendolo a 170x60cm. Al che mi dico: ma sì, mi va bene anche una stanza a metà.

È il 20 marzo 2005,

cerco

in un pomeriggio domenicale dilatato dalla noia, un po’ di spazio che sia irraggiungibile, ma vicino alla mia famiglia. Uno spazio tutto e solo mio. E allora: occhi chiusi, corpo disteso, testa sospesa fuori dal letto. Un po’ un’ascesi finché tocco terra e… occhi aperti, piedi sul soffitto,

trovo

il mio nuovo spazio. È lo stesso di sempre, solo visto da un’altra prospettiva (mi chiedo se sia questo il segreto delle relazioni, dell’invenzione, della felicità). Tutto bianco e sgombro come una tela su un treppiede, che poi son due: i miei. Non va arredata, c’è già tutto: il cassettone, da sempre troppo in alto per me, ora funge da cassa panca; l’armadio va dal soffitto al pavimento, ottimo ripostiglio per i miei sogni, mai troppo lontani; il comodino è invece distante e piccolo: ci getto i brutti pensieri, troppo pesanti per abbandonare la gravità e portarli con me; attorno al lampadario adesso posso ballare come ad un falò; la tenda è la mia coperta: dormirò sotto la finestra svegliandomi con la luce del sole. Solo un oggetto mi disturba: l’orologio. Lo sento insignificante e pesante quanto i brutti pensieri. Gira al contrario eppure io non torno piccola. Che senso ha? Vuole mettermi fretta, la stessa che fa correre tutti tutto il giorno, ma io

voglio

solo il Sole a scandire il mio tempo, la stanza sottosopra a ordinare il mio spazio.

È il 20 marzo 2020,

accumulo

desideri da sprigionare appena sarò libera di uscire e di fare ciò che ora è interdetto e interrotto. Intanto in rete c’è un universo, ma io ho bisogno di qualcosa di più, di meno. Mi bruciano gli occhi, non sono abituata. Uno schermo è troppo e troppo poco.

Annullo

per un po’ tempo e spazio.

“questo soffitto viola
no, non esiste più
io vedo il cielo sopra noi”

Evado

così, ancora una volta nella mia stanza. Mi chiedo se non sia questa una condizione di noi tutti. Noi consapevoli di non abitare la nostra stanza più di quanto lei non abiti noi; di non essere noi ad arricchirla di nuovi particolari più di quanto non sia lei a farlo. Non facciamo nient’altro che cambiare prospettiva nella camera, modificando la disposizione e l’importanza delle cose al suo (al nostro) interno; stilando una lista, nell’attesa di ritrovarci fuori, dentro e ovunque, purché con lei.

  • Piedi sul soffitto
  • Testa sotto le spalle
  • Orecchie sulle pareti
  • Scheletri nel cassetto
  • Sogni nell’armadio

È un giorno a caso di un mese a caso di un anno a caso e la mia (di)stanza è sempre questa qui.

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