L’articolo è nato da una necessità di dialogo tra due persone quasi sconosciute che durante la quarantena hanno colmato una distanza di 123 km con le parole. Questo periodo è stato una culla per la nascita di un passo a due a distanza, senza corpo. Un articolo che voleva essere scritto contro qualcosa e per qualcuno; un palato, sempre ripercorribile, che unisce due lingue di terra tra due mari. Due voci al telefono, il silenzio da||interruzione||di||linea, sopracciglia inarcate nel fermo immagine da||cattiva||connessione, uno scioglilingua di soprannomi per riconoscersi e distinguersi nella somiglianza fonetica del nostro nome.
Ci interroghiamo su ciò che è andato storto, sul non aver coraggio di guardare l’altro che ha lo stesso fiato nostro, gli stessi peli sotto le ascelle e lo stesso nome. Ci siamo smontate in piccoli pezzi per provare ad entrare nei pezzi degli altri.
In questa nostra società della prestazione non è ammessa la metamorfosi e la malattia non è soltanto antitesi di salute, ma abbruttimento (down memory lane, 04:05). Byung-chul Han, ne La società della stanchezza, ricorda che già Nietzsche parlava di salute innalzata a divinità, un’anticipazione della biopolitica che assorbe-assimila-rifiuta-espelle. Una visione polarizzata e piramidale dell’individuo che decade dal suo stato di beatitudine intangibile per rovinare nel regno del corpo-corrotto. Abbattuto il superuomo, siamo tornati a essere nient’altro che uomini. È il dramma dell’animal laborans che si auto-aggredisce: il corpo selvatico dell’uomo del XXI secolo è una iena allo scrittoio. Abdicata l’ora dell’ozio, sbraniamo il nostro tempo, morto. Che fine ha fatto il lavoratore che ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi? Forse una manciata di ansiolitici. Quale sarà allora l’eredità del corpo di questo secolo che solo ora si riscopre arrestabile? Con questo interrogativo vogliamo dar luce a ciò che per primo è stato oggetto di discussione in questa fase seconda: la relazione tra corpi viventi, ovvero il sopravvivere con e a se stessi. Se prima navigavamo avvolti in una coltre di webinar, non è forse un pastiche la nuova dimensione fisica collettiva? Lo scafandro che ci siamo costruiti odora di salutogenesi e gel antibatterico, e mentre negli Stati Uniti Trump si erge a difensore della libertà di parola attraverso la restrizione (G R E A T) della stessa, noi ci facciamo forti di un’altra libertà: come i cani, l’ora d’aria. Se i prossimi concerti e grandi eventi saranno su Twitch, quali saranno le derive della creazione artistica “che raccoglie insieme” anime e prossemica? Ci chiediamo che cosa sostituirà la compresenza dei corpi sulla scena. Che differenza c’è, ad esempio, tra un teatro di corpi non umani e uno di corpi dis-abitati? Per una volta sarà emozionante riscoprirci cyber-utenti, anime di cartonato, il virus lo ha solo messo in evidenza per tutti. Siamo la voce off, il dietro le quinte, il publiphono, il ventriloquo di OZ.
Forse siamo arrivati al punto di non ritorno: per non cadere vittime del controllo di massa dei corpi, bisognerà dis-abitarsi, o cambiare il metalinguaggio del corpo politico. Questa dovrebbe essere l’occasione per una corsa al disarmo del corpo pubblico, ormai diventato emorragico perché troppo esibito. Ci siamo dimenticati di riscattare il primo Dio, il primo vessillo sfrangiato, il primo corpo individuale vivente: il nostro. L’uomo, oggi, si percepisce prima di tutto come mente.
Questo aspetto è stato esposto dal cristianesimo come esposto era il corpo di Cristo sulla croce, inabissato dalla resurrezione. Il corpo può morire: eliminata così la condizione di necessità della morte per mezzo del sommo sacrificio, siamo preservati, prorogati. L’anima invece, pecca, si confessa e spurga. Il suo simbolo fuorviante è Lazzaro. Se la vita è resistenza alla morte, essa dovrebbe abbracciare anche il tempo della resa.
Sia questo un affaccio sulla ritenzione idrica dello stare al mondo: pieni di resti esperienziali – un surplus di stimoli-tossine – siamo il ristagno di noi stessi. Viviamo tronfi, stanchi e gonfi di una vita che lasciamo lì. È un edema il nostro stare al mondo.
Una call senza scatto alla risposta per coloro che non vedono l’ora di dis-abitarsi: è la sfida di oggi e questo è il suo manifesto. Requisito fondamentale per parteciparvi è essere pronti allo sfratto coatto, o anche interruzione del rapporto di locazione da se-stessi. Dis-abitare sarà da intendersi come sottrazione del corpo al dettame paralitico di una società che necessita un apparato organico incorruttibile. Integrità che per l’uomo è perseguibile soltanto attraverso un processo di corruzione.
Narciso è lo spauracchio della morte.
Dis-abitare significa ibernare il corpo istituzionale in virtù della riabilitazione del corpo individuale. Riscattare l’osceno diventa ora necessario: l’Anima deve pigliare aria.
Dis-abitare significa sacrificare sull’altare la risposta alla domanda che cosa vuoi diventare da grande. Significa non creare verticalità ma orizzontalità. L’ansia da prestazione si somministra in tenera età: la figura di cui ci si immagina vestire i panni è inevitabilmente una figura già socialmente riconosciuta e precostituita, idolatria della proiezione di sé. La causa dell’impossibilità di distaccarci dall’immagine performante di noi stessi – e dunque di pensarci liberamente – va ricercata nella società creatrice di bisogni psicotropi. Le nostre iperconnesse identità neutralizzano il corpo: abbiamo assassinato il modello socio-economico capitalista senza seppellirlo.
In una riscrittura della favola di Amore e Psiche di Apuleio, Alberto Savinio (1891-1952) parla dei due amanti come di due esseri amorfi e ributtanti che, non potendosi vedere, si abbandonano ciechi al desiderio della carne. Amore è in realtà un viscido lumacone che induce Psiche alla fuga. Perché non esiste amore se non del corpo1. La Nostra Anima è una donna nuda, con la pelle tatuata, da scarcerare. È la resistenza a un rito tutto contemporaneo che prevede un corpo-planisfero estremamente performante.
Una fanciulla era accasciata sul pavimento sordido, le gambe ripiegate e i calcagni riuniti sotto le rosate rotondità del sedere, il corpo poggiato in abbandono al muro […]. Strani segni istoriavano la sua pelle, simili agli ibi, alle barchette, ai cerchi astati che illustravano le pareti alte e strette degli obelischi. […] gli apparenti geroglifici erano in verità nomi, date, frasi tracciate sia con la matita, sia incise con la punta del temperino sulla pelle di Psiche dai turisti in visita al museo.2
Qui l’osceno viene ridicolizzato, diventando oggetto di sperimentazione sociale all’interno di un museo di manichini di carne. Savinio infatti, misurandosi con la rilettura delle Metamorfosi, ricolloca la vicenda in ambito borghese dove la curiosità dei visitatori è stornata dalla paura. Uomini senza cattedrali, mossi da volontà esterne, indicano con un dito-strumento inguantato il corpo-resistente, osceno, di un essere che si scoprirà poi senza genere. L’anima è qui una donna con testa di pellicano in attesa dell’iscrizione di significato. Come nella leggenda dello schiavo-messaggero ricordata da Lacan3, essa è canovaccio vergine destinato a portare addosso messaggi che non può decifrare. Psiche vessata e imbrattata è metafora del corpo che depista: è ripugnante perché, con la sua estetica sguaiata e offensiva, ha tradito le aspettative. In questa breve favola surrealista c’è già tutto il germe del rifiuto della morte, del respingimento della realtà in favore della credenza lombrosiana che il corpo sia a immagine e somiglianza dell’anima. Invece di creare una silhouette dell’osceno, invece di sfinarlo, bisognerebbe dis-velarlo visto che si vive e si muore in rigor mortis, unica autoaffermazione immunologica che sembra al momento possibile. Osceno è l’uomo che avendo la facoltà di immaginare la morte, deturpa prematuramente i suoi idoli, per essere pronto a farlo con se stesso. Il corpo che siamo è la nostra verità. Aspettiamo tutti di venire applauditi da morti.
La Nostra Anima, seduta a terra, risponde: «Tillmans Wolfgang, Uomo che piscia su una sedia 1997». Senza valori e senza logica, come lo spirito del tempo, che è lo spirito che suona, in cuffia. A che cosa potrà mai servire uno zeitgeist muto? L’ottimismo, com’è noto, è una mania degli agonizzanti4.
Su questo falsetto d’ottimismo, pisciare su una sedia assume una funzionalità gestuale autentica, aldilà del sensazionalismo. Presentare qualcosa senza valori e senza logica è una strategia qualitativa, un’arma d’attacco: Tillmans-Wolfgang-Uomo-che-piscia-su-una-sedia-1997 ribalta il calesse della morte del corpo d’oggi. La macchia d’urina si espande su un nostalgico olos in favore di pan perché più che mai c’è bisogno di rendersi conto che per nascere due volte è necessario abbandonar-si, cedere il performante per ottenere il resistente: da tutto come intero a tutto come molteplicità.
Dis-abitare significa prendere le distanze dalla futilità del dover, e voler, essere super-performante a ogni costo. È inscrivibile nel DSM considerare che Ego sum id quod sum producendum, ovvero “sono quanto faccio”. Perderemmo così la capacità di avvertirci come corporeità nello spazio. Un corpo corroso è un corpo che con l’accetta demolisce la contraddizione in termini per cui la perfezione sarebbe socialmente collegata alla sfera del non-corruttibile, dell’integro e della finitezza. Nella nostra società della stanchezza, tendere alla finitezza, comporta necessariamente l’abitarsi d’ossessione e – se è vero che «l’assoluto dell’ossessione è uno strumento che serve per tagliare il nodo scorsoio del Sacro»5 – qui il Sacro respira soltanto sotto le spore dell’osceno: attivato il tubo di scappamento dal proprio io, ecco La Nostra Anima. Questo processo di «de-creazione» è il passe-partout alla lacerazione di ogni ritualità perfettiva che fino a ora ha agito sul proprio statuto corporeo. Rendere la vita ||per sempre turgida|| ha lo stesso senso che rimettere la pianta al sole dopo morta. Nessun ||filler|| tiene: la renderebbe rimpolpata, non di nuovo vivente.
Il corpo che verrà sottratto alla circadiana incidenza del tempo e dello spazio tornerà così al sacro del mondo. Allo svuotato e corroso corpo di Prometeo mangiato e rimangiato, all’infinito. Il nuovo kerigma della «de-creazione» verrà tatuato su una nuca rasata che recita:
1 Massimo Recalcati, I tabù del mondo, Einaudi, Torino, 2017, p. 51.
2 Alberto Savinio, La nostra anima, Adelphi, Milano, 1981, pp. 49-56.
3 Massimo Recalcati, I tabù del mondo, Einaudi, Torino, 2017, p. 11.
4 Emil Cioran, Confessioni e Anatemi, trad. it. M. Bortolotto, Adelphi Edizioni, Milano, 1986.
5 Walter Siti, Pagare o non pagare, Edizioni Nottetempo, Milano, 2018, p. 13.
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